Sono entrata in contatto con Luciano Basini tramite La Voce, organo d’informazione della
comunità italiana in Sud Africa con sede a Johannesburg. Da qualche anno Luciano è il loro
corrispondente a Cape Town.
Dopo esserci scambiati qualche messaggio per spiegargli la missione portata avanti e i
contenuti di Radici del Mondo, Luciano mi ha invitata a casa sua famiglia una
mattina invernale di giugno, (ricordo che il Sud Africa si trova nell’emisfero australe, quindi
le stagioni sono opposte rispetto all’Italia), di uno degli inverni più freddi degli ultimi
decenni, così mi raccontano tutti i residenti di Cape Town!
Luciano e sua moglie Marianna mi hanno fatta sentire subito a mio agio nella loro
bellissima ed accogliente casa nel quartiere residenziale di Table View, nella parte
settentrionale di Cape Town
Dopo un ottimo (e molto italiano) caffè, Luciano inizia a raccontarmi la sua affascinante
vita. Nato a Biella nel 1943, dopo essersi diplomato come perito chimico, non potendosi
iscrivere all’università con suo grande rammarico – per via della riforma scolastica del
tempo potevano proseguire gli studi universitari solo gli studenti provenienti da licei,
propone la sua candidatura in un’azienda tessile pratese, con una sede a Standerton (un
piccolo paese a sud-est di Johannesburg), per via delle pregiate lane sudafricane. Viene
assunto nel ruolo di perito chimico specializzato nell’industria della tintoria con un contratto
di 5 anni. Inizia così, nel 1967, una nuova vita in una piccola realtà sudafricana per Luciano.
Una volta giunto a Standerton, Luciano si integra perfettamente sia nella comunità italiana
presente sul luogo – la maggior parte dei dipendenti dell’azienda sono suoi compaesani
biellesi, trasferitisi con le proprie famiglie – , sia con quelle autoctone.
Mi racconta di come abbia sempre frequentato indistintamente africani neri, afrikaaners e
italiani, senza mai aver avuto nessun tipo di pregiudizio, ma solo giudicando le persone in
quanto esseri umani e non per la loro provenienza etnica.
Proprio durante questi cinque anni infatti conosce una bella e affascinante ragazza boera,
studentessa di infermeria, che diventerà poi la sua compagna di vita.
I boeri sono una popolazione di origine europea, etnicamente eterogenea (per lo più
olandese, ma anche francese, inglese e tedesca), presente in Sud Africa dal XVII secolo. La
lingua parlata dai boeri è l’afrikaans, che assieme all’inglese e alle nove lingue bantu, è la
lingua ufficiale della Repubblica Sudafricana.
La situazione politica sudafricana ai tempi della permanenza di Luciano sul territorio è
molto delicata e necessita alcuni chiarimenti: siamo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 e vige il
regime repressivo dell’Apartheid – sistema di segregazione razziale che rafforza la quasi
totale separazione delle differenti etnie in Sud Africa.
Nelson Mandela continua il suo
periodo di detenzione con l’accusa di tradimento a seguito della sua resistenza al regime e
non sembrava ci potesse essere, almeno per il momento, un cambiamento politico di
apertura e tolleranza.
Nella quotidianità, nei rapporti con le persone di Standerton e dei vari sobborghi limitrofi di
Johannesburg, mi racconta di non aver mai percepito razzismo nei suoi confronti. Ha
partecipato ogni domenica alla messa nella chiesa “dei neri” nel vicino sobborgo di
Johannesburg: Sakile, dove era l’unico bianco, il che era severamente proibito (avere
rapporti di qualunque genere tra bianchi e neri era punibile con espulsione immediata dal
Sud Africa per uno straniero), ma Luciano ha sempre pensato che fossero delle imposizioni
discriminatorie e inumane, e ha corso il rischio di dover immediatamente lasciare Paese,
lavoro e fidanzata sfidando apertamente il regime di Apartheid.
Luciano prosegue raccontando anche di essere andato spesso a vedere una squadra di calcio
storica dei neri in Sud Africa, l’Orlando Pirates, bannata per 16 anni dalla FIFA per il,
internazionalmente condannato, regime di Apartheid. Le leggi del regime prevedevano che
la squadra (come tutte le altre composte da persone nere) non potesse competere con
squadre di bianchi (per via delle leggi segregazioniste), e giocava quindi a Sakile, che era
residenza riservata ai soli neri, dove era quindi molto rischioso per un bianco farsi vedere
(per via di cosa avrebbero pensato gli altri bianchi). Mi racconta infatti che un giorno il
magistrato del paese chiese al padre di Mariella, suo futuro suocero, se l’italiano che
frequentava sua figlia fosse un comunista. Ai tempi era in vigore in “Communist Act”:
chiunque mostrasse una qualche forma di opposizione al regime veniva indicato come tale e
poteva incorrere ad arresto o espulsione.
Con l’inasprirsi del regime dell’Apartheid, Luciano, da sempre difensore dei diritti umani e
con una posizione apertamente contraria alle leggi segregazioniste, che riservavano alla
popolazione bianca un ruolo dominante rispetto alle altre, decise di tornare in Italia una
volta finiti i cinque anni di contratto nella sede sudafricana della sua azienda.
Tornato in Italia, continua il suo mestiere di perito chimico e la sua vita a Biella.
Non è stato facile ambientarsi inizialmente per Marianna, arrivata in un paesino della
provincia piemontese, in cui non solo è quasi impossibile trovare qualcuno che parli inglese,
ma è altrettanto difficile trovare qualcuno che come primo approccio parli in italiano – tutti
parlavano in dialetto biellese, stiamo parlando dell’inizio degli anni ’70!
Ma Marianna, donna di carattere, che Luciano con affetto chiama scherzosamente “la
boera”, in riferimento alla sua provenienza culturale nordica all’apparenza più autoritaria
rispetto quella più “morbida” italiana, non si fa perdere d’animo. Inizia a lavorare nel
negozio di giornali e tabacchi della madre di Luciano.
Mi raccontano anche qualche esilarante aneddoto sui primi tempi in Italia, effettivamente
vedere una ragazza alta, bionda, che parla inglese e dal modo di fare distinto, che lavora nel
giornali e tabacchi del paese stride chiaramente con la realtà di un piccolo paesino
piemontese.
Le cose proseguono per Luciano e la sua famiglia, che negli anni si allarga, nascono infatti
tre figli maschi. La moglie è ormai parte attiva della vita biellese sia lavorativamente che
socialmente.
Nel 1990, lo stesso anno in cui il più grande dei figli della coppia avrebbe dovuto iniziare le
superiori, in Sud Africa si respirava aria di apertura a politiche meno repressive, Nelson
Mandela stava per essere finalmente scarcerato.
Marianna, nonostante ormai sia
perfettamente integrata e senta l’Italia come una seconda casa, iniziava a sentire la
lontananza dalla sua terra natale, e anche a Luciano mancava il Sud Africa. La coppia decise
quindi di fare ritorno.
Luciano riprende a lavorare per la ditta tessile pratese a Standerton. Una volta tornati,
nonostante fossero passati molti anni, riprendono la loro vita sociale attivamente nella
comunità.
Dopo qualche tempo la famiglia, in seguito ad una proposta di lavoro allettante ricevuta da
Luciano, in un’azienda tessile concorrente di quella nella quale stava lavorando a
Standerton, si trasferisce a Città del Capo.
Luciano, oltre che per l’ottima posizione lavorativa, decide assieme alla moglie di trasferirsi
a Cape Town per una migliore e più cosmopolita realtà per i propri figli in età scolastica.
Da quel momento non lasciarono più permanentemente il Sud Africa, e Cape Town. Mentre
i due figli maggiori, una volta finita la scuola, decidono di tornare in Italia, il più piccolo,
Simone, decide invece di rimanere a Cape Town. Studia inizialmente per diventare guida
turistica. Parlando dalla nascita tre lingue (afrikaans, inglese e italiano), lavorare nel settore
del turismo è stato quasi naturale e gestisce adesso una fiorente agenzia che organizza tour
safari in giro per l’Africa.
Luciano e Marianna mi hanno dato l’impressione di essere una coppia serena, che, tenendo
sempre bene in mente i propri principi, con serietà, impegno, e sicuramente sacrifici, senza
porsi limiti inesistenti, hanno avuto il coraggio di affrontare due realtà difficili e
lontanissime (per entrambi) da quella di provenienza, riuscendo ad integrarsi, e anche di
più: riuscendo, nel loro piccolo, a fare la differenza, considerando le persone attorno a loro
come fonte di stimolo e valorizzando le peculiarità delle nuove culture come punto di forza
e non come svantaggio.
Servizio di Beatrice Carrara.